Rivista trimestrale di scienze e storia

Prossima fermata, Climate Change

da | Dic 14, 2021

La prima volta che si varca un confine, quel confine è superato per sempre: molto probabilmente, dopo quella prima volta, verrà oltrepassato di nuovo. Lo sperimentiamo nella vita personale, lo vediamo nella ricerca scientifica, nel dibattito politico, nell’andamento dei titoli di Borsa… Solo due anni fa sarebbe stato preso per pazzo chi avesse azzardato l’idea che il mondo si sarebbe fermato per fare fronte a un’emergenza sanitaria. Invece è successo: un confine è stato superato.
Nel settembre 2020 l’economista Mariana Mazzucato ha pubblicato un articolo dal titolo Evitare un lockdown climatico in cui avanzava proprio la possibilità di nuovi lockdown, stavolta per fare fronte all’emergenza climatica.
Da allora altri studiosi e opinionisti hanno cominciato a prendere in considerazione l’ipotesi dei lockdown climatici. «Le trasformazioni dei ghiacci artici, gli incendi violenti negli stati occidentali USA e altrove, e le perdite di metano nel Mare del Nord sono tutti segnali di allarme del fatto che ci stiamo avvicinando a un punto di svolta sui cambiamenti climatici, momento in cui la protezione del futuro della civiltà richiederà interventi drammatici», scriveva
Mazzucato. «Con un “blocco climatico”, i governi limiterebbero l’uso di veicoli privati, vieterebbero il consumo di carne rossa e imporrebbero misure estreme di risparmio energetico, mentre le compagnie di combustibili fossili dovrebbero smettere di trivellare. Per evitare un simile scenario, dobbiamo rivedere le nostre strutture economiche e fare capitalismo in modo diverso». Fantascienza? Due anni fa lo sarebbe sembrato anche l’idea di un lockdown sanitario, che invece c’è stato. Inoltre gli allarmi lanciati dall’Ipcc e la recente conferenza sul clima di Glasgow rendono questo scenario non certo impensabile. Senza
contare il fatto che quelle climatica, sanitaria ed economico-sociale sono tre crisi strettamente interconnesse.

EPIDEMIE, DISASTRI, RIVOLTE
L’impatto della pandemia sulle economie mondiali è finito subito al centro del dibattito e ha portato sforzi e investimenti planetari mai visti prima. Contemporaneamente da più parti è stato analizzato il legame tra emergenza climatica e Covid-19 (valga per tutti l’articolo Covid-19: The disease of the anthropocene, a firma Cristina O’Callaghan-Gordo e Josep M. Antó).
Minore attenzione è stata invece riservata alla ricerca sull’impatto sociale che
inevitabilmente avrà la pandemia, nonostante le evidenze che ci mostra la cronaca (il rischio di una drammatica perdita di posti di lavoro non è un timore soltanto italiano) e soprattutto quelle che ci mostra la storia. Dalla peste nera del ‘300 (quella del Decameron, per intenderci) alla peste bubbonica del ‘600 (quella dei Promessi sposi), fino all’Influenza spagnola tra le due Guerre Mondiali, alla quale il Covid è stato spesso accostato, la storia è ricchissima di esempi su come le epidemie abbiano avuto, in tempi più o meno lunghi, ripercussioni sociali: rivolte imponenti che possono portare e veri e propri stravolgimenti dell’ordine sociale (North and Paul 1973, Bristow 2017, Elledge 2020).
Ma nonostante le amplissime evidenze, gli studi sui legami tra epidemie e rivolte sociali sono scarsi e in genere limitati a singoli episodi. Tra le eccezioni, Epidemics and Society: From the Black Death to the Present (Frank M. Snowden, 2019, Yale University Press), che analizza anche l’epidemia del 1832 a Parigi: in pochi mesi il colera uccise 20mila persone su una popolazione totale di 650mila. La maggior parte delle vittime si concentrò nel centro di Parigi, dove vivevano in condizioni di povertà estrema i lavoratori arrivati in città sull’onda della Rivoluzione Industriale. L’epidemia acuì le tensioni sociali preesistenti: i ricchi accusavano i poveri di diffondere la malattia, i poveri erano convinti si trattasse di un complotto dei ricchi per avvelenarli. I funerali del generale Lamarque, difensore delle cause sociali e morto di colera, scatenarono imponenti manifestazioni, scontri, barricate nelle strade: era cominciata l’insurrezione repubblicana di Parigi, quella che tutti conosciamo grazie a I miserabili di Victor Hugo. 

Snowden sostiene che l’interazione tra l’epidemia e le tensioni preesistenti sia stata una delle cause principali non solo della rivolta del 1832, ma abbia riverberato sulle tensioni sociali di tutto il secolo, non ultima la Comune di Parigi.

“Fare capitalismo in modo diverso” diventa oggi, dunque, ancora più urgente. I cambiamenti climatici portano all’acuirsi della frequenza e dell’intensità dei disastri naturali (uragani, incendi, alluvioni, siccità…) che causano migrazioni e tensioni sociali che si sommano a quelle generate dalla pandemia. Questo combinato di cause può portare alla luce problemi preesistenti e profondi, come l’inadeguatezza di un certo sistema di welfare, l’incapacità di un certo governo, la mancanza di fiducia di un popolo verso le istituzioni… Inoltre le epidemie hanno sempre esacerbato la “paura dell’altro” (storicamente, in Europa, gli ebrei, ma non solo: basti pensare agli untori del Manzoni) e hanno aumentato le diseguaglianze, colpendo i ricchi molto meno duramente rispetto al resto della società. Anzi, spesso, i ricchi sono usciti da una pandemia più ricchi di prima. 

È da queste considerazioni che muove Social Repercussions of Pandemics di Philip Barrett e Sophia Chen (gennaio 2021, IMF Working Papers), nel quale gli autori prendono in considerazione non solo come gli effetti dei disastri naturali o di un’epidemia possano portare a sommovimenti sociali, ma anche come questi eventi possano al contrario fungere da mitigatori delle crisi sociali. Questo sia nel breve termine (l’impossibilità di spostarsi, a causa di un collasso delle vie di comunicazione o di un lockdown, impedisce di fatto l’eventualità di grandi proteste di piazza), ma anche nel medio-lungo periodo: i disastri, per esempio, possono aumentare lo spirito di collaborazione e solidarietà di un popolo. Per la loro analisi, Barrett e Chen hanno utilizzato il Reported Social Unrest Index (RSUI), un indicatore basato sulla copertura stampa delle rivolte sociali, che ha mappato 569 tensioni sociali in 130 Paesi dalla metà degli anni ‘80 all’inizio del 2020 (per approfondimenti: Philip Barrett, Maximiliano Appendino, Kate Nguyen, e Jorge de Leon Miranda, Measuring Social Unrest Using Media Reports, luglio 2020). Hanno poi confrontato i dati con quelli del EM-DAT, un database con informazioni su oltre 11mila disastri naturali ed epidemie nel mondo a partire dal 1990.

Naturalmente, per questione di date, nello studio non è inserito il Covid, ma l’analisi offre comunque diversi spunti interessanti. Ovviamente non si possono estrapolare regole certe e valide in tutti gli Stati, dal momento che incidono profondamente anche fattori esterni come la geografia del Paese, il reddito, il sistema di welfare… Ma, per esempio, un dato appare subito evidente osservando i grafici: quando avviene un disastro naturale o scoppia un’epidemia (e nel periodo immediatamente seguente) le tensioni sociali sembrano sparire. 

L’esperienza del Covid sembra confermare questa regola: se guardiamo alla prima e alla seconda ondata della pandemia, da marzo a dicembre 2020, notiamo che il mondo è stato insolitamente tranquillo (a marzo 2020 si è registrato il picco più basso degli ultimi cinque anni), con due sole eccezioni: gli Stati Uniti, con le manifestazioni Black Lives Matter, e il Libano, in seguito al tracollo economico e politico del Paese. Più recente e drammatico quello che è successo in Afghanistan dove però, al di là di ogni altra considerazione, va tenuto presente che il Paese è stato toccato molto limitatamente dal Covid: dall’inizio della pandemia all’ingresso dei talebani a Kabul i morti in tutto sono stati appena 7mila, un dato probabilmente sottostimato ma non di molto, se pensiamo alle strutture ospedaliere presenti almeno nelle principali città. Questa pace sociale è facilmente spiegabile: durante un’epidemia tutta l’attenzione è concentrata sull’emergenza, per fare fronte alla quale, inoltre, spesso gli Stati impongono legislazioni speciali che limitano di fatto le libertà personali rendendo ancora più difficile manifestare e organizzare proteste. Su questo tema in Italia si è acceso un forte dibattito (basti ricordare le prese di posizione, tra gli altri, di Giorgio Agamben, Massimo Cacciari e Franco Cardini), che però l’evidenza storica fa apparire alquanto sterile. 

Gli studi sopra citati (in particolare Snowden, 2019) mostrano come spesso anche in passato le misure prese per contrastare un’epidemia siano state considerate eccessive o troppo dispendiose in termini economici e sociali. Ma se lo siano state davvero lo si è potuto constatare soltanto ex post, a epidemia conclusa. Inoltre le analisi comparative di Barrett e Chen mostrano che, in genere, le misure straordinarie di contenimento sociale hanno breve vita e tendono a scomparire una volta terminata l’emergenza. Lo stesso avviene però anche per la pace sociale: una volta superato, in qualsiasi modo, il problema, le tensioni riprendono, generalmente più forti di prima, soprattutto nel lungo periodo. Questa tendenza è confermata anche dai pochi studi sull’impatto sociale di recenti pestilenze. In due saggi relativi a Stati africani Cervellati et al (2014 e 2018) mostrano che epidemie di malaria, febbre Zika e febbre gialla aumentano la possibilità di guerre civili e le rendono ancora più violente.

Un altro dato che emerge è che dopo la tregua di pace sociale che coincide con un’epidemia, è più probabile che le tensioni riprendano là dove si erano accese prima dell’emergenza. Non si tratta di una legge certa: è come la brace sotto la cenere, se si riesce a spegnerla approfittando del periodo di tregua non ricomparirà. Ed è per questo che le misure economiche prese dai governi per contenere da un lato la pandemia e dall’altro l’emergenza climatica sono in questo momento cruciali. “Fare capitalismo in modo diverso”  

Abbiamo visto come, nella storia, gli effetti di un’epidemia possano riverberare per decenni se non si affrontano le tensioni sociali che precedevano e seguivano l’emergenza. Scrivono Barrett e Chen: «Da un lato, le evidenze di una robusta relazione tra epidemie e rivolte sociali sono forti, con cicatrici che durano a lungo. Dall’altro lato, l’evidenza è debole nel medio termine. Nel breve periodo, la possibilità di disordini sociali è leggermente più bassa subito dopo un’epidemia, dal momento che i fattori mitiganti dominano nel breve”

Non fermiamoci all’oggi. 

Gianluca Beltrame è giornalista professionista dal 1985.Dopo la Maturità negli Usa, si laurea con lode in Lettere moderne con indirizzo Storia contemporanea all’Università cattolica di Milano. Durante gli anni dell’università comincia a collaborare alle pagine milanesi di La Repubblica. Diventato giornalista professionista, lavora per le principali case editrici italiane (Rizzoli, Rusconi, Mondadori), cambiando spesso giornale e mansioni: è Panorama la testata per la quale lavora più a lungo (12 anni) come Caporedattore Esteri, Caporedattore centrale e Caporedattore Cultura. Nel gennaio 2009 lascia Panorama e diventa Caporedattore centrale a Vanity Fair. Dopo sei anni, è invece direttore dell’edizione italiana di Rolling Stone. Nel suo curriculum anche esperienze televisive: alcuni servizi dall’Italia per la Bbc e due anni come capo ufficio stampa di Striscia la notizia, a Mediaset.